Per Andrea Pontremoli, amministratore delegato di Dallara, la new space economy rappresenta un'opportunità importante per la sperimentazione di nuove tecnologie e materiali, con ricadute concrete anche per le attività sulla Terra. Per favorire gli investimenti è però necessario trovare un efficace modello di collaborazione tra pubblico e privato, sull’esempio statunitense.

“La mia visione della space economy si compone di due elementi: contenitore e contenuto. Il contenitore è linfrastruttura, ovvero missili, navicelle, stazioni spaziali. Il contenuto comprende invece tutto ciò che si può fare con e dentro questi strumenti: esperimenti, applicazioni, collaborazioni, coinvolgendo anche aziende di settori tradizionali. Queste imprese nello Spazio possono sperimentare soluzioni utili per problematiche che riguardano la loro attività sulla Terra”. Andrea Pontremoli è amministratore delegato di Dallara, storica azienda italiana specializzata nella progettazione e produzione di auto da corsa ad alte prestazioni, che da tempo ha sviluppato anche soluzioni per i settori aerospaziale e della difesa.

>> Ingegner Pontremoli, la new space economy, tematica approfondita anche in occasione di Ecomondo, è un settore strategico per lItalia, come dimostrano i fondi stanziati dal PNRR e la partecipazione del nostro Paese alla Missione AX-3 di Axiom. Come è strutturata la ricerca a livello nazionale?
Abbiamo costituito dei gruppi di lavoro, come richiesto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: Leonardo coordina la parte del contenitore, mentre Dallara segue quella del contenuto. Siamo ancora in una fase iniziale, in cui si fa molta ricerca di base. Il discorso è complesso, perché non è facile per le imprese non aerospaziali capire come possono trarre valore da eventuali investimenti, dato che il ritorno non è immediato. Proprio per questo servono aiuti o incentivi pubblici: il sistema Italia, o l’Europa, dovrebbe costruire le stazioni e garantire i trasporti. A quel punto le aziende potrebbero investire negli esperimenti, senza dover sostenere gli elevati costi di viaggio. Per essere ancora più chiaro, io faccio sempre l'esempio dell’autostrada: non possiamo chiedere alle imprese di costruirla e poi di pagarla. La costruzione spetta al pubblico, che poi chiede un pedaggio”.

>> Gli Stati Uniti sono più avanti in questo senso.
Negli Stati Uniti pubblico e privato lavorano fianco a fianco, mentre noi dobbiamo ancora trovare un modo per farlo. I privati americani investono, ma ricevono anche tanti finanziamenti statali: basti pensare ai primi lanci di Musk, tutti sostenuti dalla Nasa. Senza quel sostegno, avrebbe avuto un ritorno in tempi lunghissimi. Seguendo questa logica, la Nasa è passata da essere ente produttore a ente certificatore, aprendo il mercato, e i privati si sono moltiplicati: SpaceX, Axiom, Blue Origin, Virgin Galactic.

>> Quale modello può convogliare gli investimenti privati?
Cerchiamo un business case credibile. Visto che l’ISS sarà dismessa entro il 2031, si stanno già costruendo nuovi moduli, più abitabili, più adatti anche al turismo e alla produzione industriale. Ad esempio, nello Spazio si possono creare leghe leggere, impossibili da ottenere sulla Terra, oppure testare antibiotici in modo più efficiente grazie a un ambiente perfettamente sterile. Ci vogliono però spazi appositamente disegnati. Il mio sogno è un modulo Italia, che possa essere messo a disposizione delle imprese italiane o straniere, come avviene al CERN di Ginevra, costruito dal pubblico, ma utilizzato dai privati quando devono sperimentare. Lo Spazio, quindi, può essere un nuovo ambito di ricerca e sperimentazione, ma l’infrastruttura — la stazione e i trasporti — deve farla il settore pubblico. Le imprese potranno così andare a fare i loro studi sulla stazione spaziale e poi tornare, anche perché, a parte gli astronauti, che faranno da piloti, alle altre persone non servirà avere un allenamento particolare, come hanno dimostrato l’attore William Shatner, il capitano Kirk di Star Trek, e il giovane studente Oliver Daemen, volando con Blue Origin, rispettivamente a 90 e 18 anni. 

>> Che costi comporterebbe la costruzione di un modulo italiano?
La costruzione di un modulo della Stazione Italia costerebbe circa 400-500 milioni. Non sono cifre iperboliche. Linfrastruttura di trasporto si può affittare, da SpaceX a Blue Origin. Va anche detto che i costi delle missioni sono scesi: dallo Space Shuttle, che costava un miliardo a missione, siamo passati a 40-45 milioni.



>> Qual è oggi il panorama globale dei lanci privati? Si stanno muovendo tutti: Stati Uniti, Cina, India, Unione Europea...
Servirebbe più coesione. Perché nello Spazio siamo ancora tutti insieme: nella stazione orbitante i russi sono i responsabili della sicurezza. Lo Spazio ci unisce, a patto di non considerarlo solo un discorso militare. Può essere un bel modo per unire il mondo, ma serve qualche sforzo. La Cina, per esempio, si sta facendo le sue stazioni e il suo lancio per la Luna, ma, se ogni paese procede in autonomia, si rischia di avere tanti sistemi diversi, molto costosi e non interoperabili.

>> In Italia su quali progetti si sta lavorando?
Si procede su diversi fronti, tutti comunque guidati dall’idea di scoprire qualcosa di nuovo, che poi possa tornare utile anche sulla Terra. Noi, come Dallara, stiamo testando nuovi materiali, che potrebbero essere sfruttati anche in ambienti ostili sul nostro Pianeta. L’ultima sperimentazione è stata a gennaio, durante la missione di Walter Villadei.
Non si tratta solo di materiali da costruzione, ma anche, per esempio, di abbigliamento: servono tessuti resistenti ai raggi gamma e ai neutroni veloci e ad alta energia, con cui poi si potrebbero realizzare camici per i medici che in ospedale si occupano delle tac. Prada, dopo Luna Rossa, sta lavorando a una tuta lunare, in collaborazione con Axiom.
Le scarpe, per esempio, sono un problema notevole: nello Spazio l’escursione termica è estrema, perché si passa da -100 all'ombra a +200 gradi al sole: bisogna trovare un materiale sufficientemente resistente. Per quanto riguarda l’agricoltura, Barilla sta lavora alla coltivazione di ortaggi nello Spazio. Se riusciamo a far crescere carote o patate sulla Luna, potremo farlo anche nel Sahara. Per quanto riguarda l’alimentazione, tra l’altro, non è sufficiente pensare a pillole contenenti i nutrienti giusti, perché contano anche il gusto, la consistenza, l’odore, insomma la piacevolezza del cibo.
Infine, GVM Assistance si sta occupando di telemedicina e telemetria: come reagisce il corpo al cambiamento? I sistemi di monitoraggio da remoto potranno tornare utilissimi anche sulla Terra, per seguire i pazienti a casa. 

>> Capitolo space finance: ci sono investitori?
Negli Usa questo è ormai un must: la startup Axiom ha raccolto 2,5 miliardi in pochi mesi. In Italia siamo a zero su questo aspetto, invece, e anche l’Europa è indietro. Un aspetto importante è la mancanza dello storytelling, anche perché non esiste una strategia pubblica, che possa dare garanzie agli investitori. Gli Stati Uniti, invece, hanno un piano chiaro e condiviso. 

>> Ogni narrativa ha bisogno di un pubblico. Gli italiani e le italiane hanno una visione dello Spazio? In passato Musk faceva sognare con le sue imprese, mentre ora è inviso a molti…
Questo è proprio il punto: dobbiamo diventare bravi a raccontare.
Per questo insisto sulla differenza tra contenitore e contenuto, perché aiuta le persone a capire le potenzialità e a immaginare.
Pensiamo che gli americani, andando sulla Luna, hanno creato 300.000 brevetti, dagli occhiali da sole con filtro Polaroid al Gps che abbiamo sul telefonino. Hanno investito senza sapere cosa avrebbero trovato. Quando chiesero a Kennedy perché andare sulla Luna, lui disse: ‘Non lo so. So solo che è una cosa molto, ma molto difficile’. Ecco la chiave: investire in ciò che è difficile, perché così favorisci il progresso. È la costrizione che porta all’innovazione.

Articolo a firma di Emanuele Bompan e Maria Carla Rota


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