Gli accordi sul clima di Parigi del 2015 hanno fissato l’obiettivo di rendere i flussi finanziari a livello globale "coerenti con un percorso verso basse emissioni di gas serra (GHG) e uno sviluppo resiliente al clima". Ma qual è la situazione odierna?

 

Gli accordi sul clima di Parigi del 2015 hanno fissato l’obiettivo di rendere i flussi finanziari a livello globale "coerenti con un percorso verso basse emissioni di gas serra (GHG) e uno sviluppo resiliente al clima". Ma più in generale l’obiettivo della cosiddetta finanza sostenibile è quello di coniugare la garanzia di un rendimento finanziario per chi investe le proprie risorse con il vantaggio in termini di benessere collettivo prodotto dal loro impiego. Sono i cosiddetti criteri ESG a determinare la rotta da seguire e a indirizzare i capitali verso attività conformi ai tre ambiti in cui si declina la sostenibilità: Environmental, Social e Governance.

Se però la teoria è chiara, nella pratica parlare di finanza sostenibile significa parlare di un processo ancora poco maturo, ma tutt’altro che lineare e pieno di insidie, in via di definizione anche grazie a un quadro normativo sempre più strutturato.

 

IL QUADRO NORMATIVO EUROPEO

Reindirizzare i flussi finanziari verso attività meno impattanti e foriere di benefici per il clima, la biodiversità, la salvaguardia delle risorse idriche, il rispetto dei diritti umani significa innanzitutto individuare la natura specifica di tali attività e distinguerle da quelle che invece non sono configurabili come sostenibili. Per operare questa distinzione l’Unione Europea è intervenuta prima con l’adozione di un Piano d'azione sulla finanza sostenibile adottato dalla Commissione nel marzo 2018, e poi con il varo della cosiddetta a Tassonomia UE, un sistema di classificazione che fornisce alle aziende, agli investitori e ai decisori politici i riferimenti per poter classificare le attività economiche come sostenibili dal punto di vista ambientale.

Il Regolamento sulla tassonomia (2020/852/UE) è stato accompagnato da un inteso lavoro della Commissione Ue, che ha definito criteri di selezione tecnica per ciascun obiettivo ambientale attraverso atti delegati e di esecuzione. Parallelamente nella passata legislatura europea è stato avviato il percorso per definire anche una “tassonomia sociale”, in modo da individuare con chiarezza anche le attività ritenute “socialmente sostenibili”, ma questo iter non è ancora arrivato a produrre un atto normativo.

 

STANDARD COMUNI PER MISURARE LA SOSTENIBILITÀ

Per regolamentare la comunicazione e divulgazione delle informazioni riguardanti la finanza sostenibile da parte dei diversi operatori finanziari, è stato invece messo a punto il Regolamento europeo 2019/2088 noto con la sigla SFDR, Sustainable Finance Disclosure Regulation. Questo regolamento si affianca alla revisione della Direttiva sulla rendicontazione delle informazioni non finanziarie da parte delle imprese (Non Financial Reporting Directive, NFRD) e al successivo varo della cosiddetta direttiva CSDR, Corporate Sustainability Reporting Directive, la quale richiede alle imprese non finanziarie di dimensioni maggiori di divulgare le informazioni sui rischi e impatti delle proprie attività mediante la pubblicazione di un rapporto sulla sostenibilità. Tali obblighi di rendicontazione saranno introdotti gradualmente nel tempo a partire dal 2024, per le società di grandi dimensioni di interesse pubblico già soggette al regolamento “Non Financial Reporting Directive”, nel 2025 per tutte le altre grandi imprese dell’UE e nel 2026 per le PMI quotate.

La possibilità di accedere a informazioni in materia ambientale, sociale e di governance affidabili consente di incrementare la quota di investimenti, ma deve esserci una metrica comune per avere la possibilità di misurare e confrontare le performance

In attuazione della direttiva CSRD, il gruppo consultivo europeo sull’informativa finanziaria EFRAG, ha messo a punto la prima serie di principi europei di rendicontazione della sostenibilità: gli European Sustainability Reporting Standards (ESRS). Il ricorso a questi standard – che si affiancano a quelli già utilizzati nel tempo come ad esempio i GRI (Global Reportig Initiative) – è stato introdotto con gradualità e l’obbligo previsto per giugno 2024 è slittato a giugno 2026, per consentire alle imprese di avere il tempo di adeguarsi al nuovo sistema.  

 

QUEI FONDI GREEN SONO TROPPO GRIGI

Mentre, però, l’apparato normativo continua ad evolversi, l’attività di banche, società finanziarie, fondi pensione e assicurazioni nel campo della finanza sostenibile procede non senza rischi e contraddizioni. Il ricorso ai cosiddetti “fondi green” avviene sia per investire in attività ritenute di per sé poco impattanti sia per favorire la riduzione degli impatti nei settori più inquinanti e climalteranti. Soprattutto in questo secondo ambito il rischio greenwashing è sempre in agguato e l’aggettivo “verde” è usato spesso per coprire un’area grigia ancora troppo presente. Una recente inchiesta di VoxEurope ha evidenziato che i primi 10 gestori patrimoniali cui fanno capo più del 25% dei “fondi verdi” regolamentati dall'UE, ovvero 87 miliardi di euro, investono su 200 aziende impegnate in settori ad alta intensità di carbonio. Il Regolamento sulla disclosure finanziaria (SFRD) consente di classificare con “verdi” i 4.342 fondi che in Europa investono su fossili e altri settori inquinanti.

È stata la stessa Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) a ribadire, nel suo report sul greenwashing, che è difficile identificare e sanzionare condotte come queste perché le definizioni in questo ambito sono “poco chiare o ambigue”. L’Autorità europea si è vista anche osteggiare nel suo tentativo di imporre limiti agli impatti negativi delle attività finanziate da “green bond” o di introdurre l’obbligo per i fondi di avere nel loro portafogli almeno la metà di investimenti sostenibili per poter comunicare questa caratteristica.

Anche la recente categoria della cosiddetta “finanza di transizione”, che individua espressamente gli investimenti necessari a decarbonizzare i settori più impattanti, rischia di diventare uno strumento di greenwashing, perché a fronte dell’avvio dei fondi non esistono ancora indicatori per tenere sotto controllo l’effettivo raggiungimento degli obiettivi di riduzione deli impatti e decarbonizzazione.

Visto il peso degli attori in campo, non sarà semplice arginare i tentativi di cavalcare la necessaria spinta verso gli investimenti in sostenibilità per continuare con il “business as usual”: per fare in modo che la finanza sostenibile lo sia davvero, giovano un ruolo fondamentale la possibilità di poter contare su un’informazione indipendente e su una legislazione, europea e non solo, svincolata dalle pressioni delle imprese più impattanti. 

 

Un articolo di Raffaele Lupoli - Direttore Responsabile di EconomiaCircolare.com