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Aziende: come comunicare la transizione nell’era del greenlash?

Aziende: come comunicare la transizione nell’era del greenlash?

Alla fine del 2024 il Financial Times sceglieva la parola greenlash per riassumere l'anno appena concluso nella sua tradizionale rubrica Year in a word. Purtroppo anche nel 2025 il neologismo – contrazione di green backlash – continua a descrivere piuttosto fedelmente una tendenza cavalcata dai populismi al di là e al di qua dell'Atlantico: il fastidio, o addirittura il rigetto delle politiche ambientali e delle strategie di sostenibilità, spesso percepite dalle aziende come onerose e dall'opinione pubblica come poco attente ai risvolti sociali. 

A questa narrazione, che identifica nella sostenibilità un ostacolo alla crescita, l'Unione Europea vuole ora opporre un reset pragmatico delle sue strategie ambientali, lanciando una nuova parola d'ordine: competitività sostenibile. La nuova roadmap annunciata a inizio 2025 e battezzata Competitiveness Compass si fonda su tre pilastri – innovazione, decarbonizzazione e sicurezza delle catene di approvvigionamento – e mira appunto a dimostrare che un'economia a basse emissioni non è solo una scelta imprescindibile per la resilienza climatica e la salute dell'ambiente, ma può anche diventare un motore di sviluppo e occupazione.  

Ma cosa ne pensano le aziende? Come stanno affrontando la transizione in un mondo in grande cambiamento politico e sociale?

Se ne è discusso a Ecomondo in occasione del CEO Summit 2025, che ha riunito attorno a un tavolo i vertici di alcune delle più importanti aziende italiane (Versalis, Novamont, Iren, Ferrari, Itelyum, Unidro&Sodai, Gruppo Hera, Gruppo A2A) per un confronto sulle condizioni di una transizione giusta, alla luce del nuovo scenario economico e geopolitico globale. Sono emerse parole chiave come coraggio, adattabilità, cooperazione, visione a lungo termine. E su tutte, la necessità di costruire una nuova narrazione, che vinca la diffidenza e punti, nuovamente e con più forza, sugli aspetti positivi della transizione. 

Per approfondire questi temi, abbiamo fatto una chiacchierata a margine dell’evento con Andrea Alemanno, docente di comunicazione d’impresa all’Università Bicocca e responsabile delle Service Line Public Affairs e Corporate Reputation di Ipsos Doxa. 



Professor Alemanno, la sostenibilità sembrava un concetto ormai accettato: come siamo arrivati oggi a parlare di greenlash? 
<< Ci dimentichiamo spesso che la sostenibilità è un tema relativamente recente. Fino al 2015 era un argomento per specialisti. Poi quell’anno sono arrivati gli obiettivi 2030, la COP di Parigi, l’Enciclica Laudato si’. Ed è stato anche l’anno del Dieselgate, che ci ha fatto per così dire uscire dall’innocenza e ci ha fatto capire che la sostenibilità è un tema serio, e non ci sono scorciatoie. Fino a quel momento le persone che sapevano davvero cosa fosse la sostenibilità erano meno del 10%.

Poi la consapevolezza è cresciuta, grazie anche a Fridays for Future, ai movimenti di opinione e a tante iniziative. Ma oggi le cose sono ancora diverse. Il tema si è scontrato con una realtà in cambiamento: prima con il Covid-19, poi con la crisi energetica, della quale si è a volte attribuita la responsabilità, ingiustamente, alle rinnovabili. Viviamo dunque un momento di forte scetticismo, di greenlash, appunto. Io però la considero una crisi di crescita. Ed è una crisi nata dal fatto che abbiamo raccontato la transizione verso la sostenibilità come troppo “facile”>>. 

Quali sono stati nello specifico gli errori in questa narrazione? 
<<Già il termine transizione, di per sé, dava l'idea di un passaggio abbastanza veloce e potenzialmente indolore. Non era così, non è così, non poteva essere così. L’ex ministro Cingolani fu sommerso di insulti quando disse, parafrasando Mao Zedong, che “la transizione ecologica non è un pranzo di gala”. Ma Cingolani aveva ragione, la transizione va raccontata meglio, in maniera più razionale e più seriamente, parlando dei costi, delle infrastrutture necessarie, degli impegni delle industrie. Va detto che, nonostante tutto, il numero di persone attente alla sostenibilità cresce lentamente ma in modo costante, di anno in anno: oggi in Italia siamo al 26% della popolazione.

Certo, è un processo lungo, con errori e incoerenze. Ma, come diceva Alex Langer, non ne usciremo con un colpo gobbo, in fretta: bisogna fare la fatica di convincere le persone, di far capire loro che hanno bisogno di un modo diverso di vivere. Uno degli errori è stato considerare la sostenibilità alla stregua di un prodotto, una merce. Bisognava raccontarla invece come processo. Ma dal punto di vista del mercato, questa è una narrazione poco “sexy ”. Si è puntato così su prodotti simbolo come la Tesla, con il risultato che oggi l’auto elettrica è diventata per i detrattori del sostenibile la quintessenza di tutti i suoi aspetti negativi: un prodotto elitario, costoso, per ricchi>>.  


 



Si è sbagliato dunque anche a valutare le reazioni dei consumatori? 
<<Non abbiamo capito che il consumatore negli anni è maturato: la sostenibilità la conosce e la ricerca anche, per quel che può e quando non si sente fregato. Ma le scelte sostenibili non sono quasi mai fatte per preoccupazione verso il futuro o per etica. C’è chi le fa per questi motivi, ma si tratta di una minoranza. Chi sceglie un prodotto o un'azienda sostenibile, lo fa per mera utilità, perché pensa che sia un prodotto migliore, fatto con più cura, con più attenzione, con più controlli, da un'azienda di cui ci si può fidare. E in questo caso è anche disposto a pagare di più. Questo tema va indagato meglio e raccontato meglio>>. 

A proposito di raccontare, se fino a un paio di anni fa avevamo il problema del greenwashing, non è che adesso stiamo andando verso il suo opposto, il green-hushing? 
<<È proprio così. E potrebbe rivelarsi peggio del greenwashing, che, va detto, molto spesso era inconsapevole. Se qualche anno fa capitava che un’azienda predicasse bene e razzolasse male, oggi sempre più aziende sono attente alla sostenibilità – per motivi di legislazione, perché ci credono, perché i clienti glielo chiedono – ma predicano poco. E in questo modo non contribuiscono a diffondere consapevolezza sull’importanza della sostenibilità. Quindi è fondamentale che le aziende si raccontino e si raccontino bene, avendo il coraggio dei tempi lunghi>>.  

E come si fa a introdurre i tempi lunghi nella narrazione e nelle politiche aziendali?  
<<Bisognerebbe innanzitutto avere investitori pazienti e più lungimiranti, anche perché in fondo la sostenibilità è un modo per stabilizzare la finanza e correre meno rischi. Ma servono per questo delle misurazioni serie. Gli ESG sono al momento l'unica rendicontazione che inserisce una misurazione seria di quello che l’azienda fa e di come sta raggiungendo gli obiettivi che si è data. Il passo successivo è quello di avere analisi comparabili da un settore all'altro sugli impatti positivi. E poi bisogna fare un racconto più ampio dei vari aspetti della sostenibilità. Ad esempio l’innovazione: quello della sostenibilità è un mondo di innovatori, e questo è un tema decisamente più “sexy ” dal punto di vista della narrazione. Si potrebbero ad esempio portare gli studenti in visita a Ecomondo, a vedere quanta innovazione c’è, quanta tecnologia, quanta digitalizzazione. E anche quanta collaborazione: perché un'economia sostenibile è un'economia che compete e collabora di continuo, e questo è un altro aspetto positivo da comunicare.

Tornando al tema degli ESG, oggi si percepisce spesso in molte aziende un fastidio, un’insofferenza per gli obblighi di rendicontazione. Il che può anche essere comprensibile... Purtroppo in Italia abbiamo già una quantità infinita di burocrazia inutile, a cui ora si aggiunge anche quella degli ESG, che se pur utile in questo caso, è comunque una fatica. E in più abbiamo sistemi tecnologici spesso non adeguati, che non facilitano il compito. Altro problema per le aziende sono i controlli infiniti. Il punto è che bisognerebbe lasciare anche la possibilità di fare degli errori, lo sviluppo non può sempre essere lineare. Magari un anno è stato particolarmente difficile per un’azienda e non la si può far fallire solo perché non ha raggiunto gli obiettivi ESG. Bisognerebbe dare la possibilità di recuperarli in tre anni, ad esempio. Come si fa nel caso dei debiti, che vengono ristrutturati per dare la possibilità di ripagarli>>. 


 



Questa è un po’ l’idea che guida il Competitiveness Compass dell'Unione Europea. Cosa ne pensa? 
<<Il grosso rischio mediatico e politico è che il Competitiveness Compass venga percepito come un passo indietro. L’UE non sta dicendo: “Va bene, abbiamo esagerato, torniamo un po’ indietro, fate un po’ quello che volete per più anni”. L’interpretazione corretta è: “Vi diamo un po’ più di tempo affinché facciate bene i compiti a casa, perché altrimenti bocciamo tutti”. Sto banalizzando, però il rischio che questa roadmap venga vista come una sconfessione del Green Deal è forte, e sarebbe un vero peccato.  

C'è poi un altro punto. Uno degli errori del Green Deal era di entrare un po' troppo nella tecnicalità di come risolvere i problemi, mentre avrebbe dovuto rimanere a livello di obiettivi. Entrando nella tecnicalità in un mondo, come dicevo prima, fortemente innovativo, si rischia di ammazzare l’innovazione. Gli obiettivi devono essere chiari, ma senza entrare in maniera così specifica nel modo di raggiungerli. Ad esempio, per l’automotive avrebbe senso fissare un livello massimo di emissioni di CO2 da autoveicoli a una certa data, in 10 o 15 anni: poi come ci arriverà il mercato sarà un suo problema, non possiamo sapere cosa verrà inventato. Se invece si impone la trasformazione di un settore industriale, il rischio è che questo non sia in grado di farlo>>.  

In conclusione, non dobbiamo farci prendere dalla fretta e pensare positivo.  
<<Pensare positivo e non farsi prendere dallo scoramento. È il momento di diventare un po’ più seri e un po’ più visionari, nel senso di avere una visione a lungo termine della situazione. La fretta è sempre stata cattiva consigliera. Va bene l’urgenza, ma se la casa sta andando a fuoco, e tu ti muovi scompostamente, rischi di alimentare il fuoco. Quindi anche se la casa va a fuoco, vanno fatte con criterio delle azioni per spegnerlo>>.  

Articolo scritto da Giorgia Marino 

Questo blog è un progetto editoriale sviluppato da Ecomondo con Materia Rinnovabile

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