COP30 si è chiusa nella generale disattenzione mediatica, con un risultato debolissimo, non riuscendo a trovare spazio per una roadmap per la transizione dalle fonti fossili per rilanciare gli sforzi – oggi insufficienti – della mitigazione delle emissioni di gas serra climalteranti. Non c’è stato lo schianto del multilateralismo ambientale che alcuni temevano a causa delle tensioni geopolitiche e dell’uscita degli USA dall’Accordo di Parigi. Ma sono enormi le divisioni tra i paesi che non vogliono cedere sulla fine a lungo termine delle fossili (i paesi del Golfo, la Russia e gli USA, ma anche India e Sud Africa), quelli che hanno spinto per disegnare un percorso di transizione condiviso e concreto (Paesi dell’America Latina, i piccoli Stati insulari, alcuni paesi africani, Australia, UK, Francia, Germania) e quelli che non sanno da che parte stare esattamente, come l’Italia.
Per molti negoziatori e osservatori senza dubbio questa è stata la peggior COP dai tempi di Madrid, e forse persino di Copenaghen, quando il processo negoziale collassò completamente. Un momento davvero buio per la UNFCCC, la convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite.
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Photo credit: Foto: Rafa Neddermeyer/COP30 Brasil Amazônia/PR
Il testo finale della COP30
La Mutirão Decision, il testo politico finale della COP30, scialbo e piatto, non cita esplicitamente i combustibili fossili e non accoglie l’appello del Presidente Lula e di oltre 80 Paesi per una roadmap su fossili e deforestazione. Si limita a ribadire la traiettoria tracciata a Dubai su questo tema, quella del transitioning away, la transizione da carbone, petrolio e gas, da fare in qualche modo, entro il 2050. Inoltre, nonostante l’importante annuncio di creare la Tropical Forest Forever Facility (un fondo che ha inizialmente raccolto 5,5 miliardi di dollari e dovrebbe arrivare a generarne almeno 25 al 2030, gestito dalla Banca Mondiale) la Presidenza brasiliana di COP30 non ha incluso una definizione forte dell’azione di lotta alla deforestazione con un obiettivo numerico o politico concreto.
Invece che dare indicazioni chiare ai paesi, all’industria e al mondo della finanza, il negoziato ONU ha solo stabilito di abilitare nuovi processi per accelerare la transizione energetica, come il Global Implementation Accelerator e la Belém Mission to 1.5°C. L’obiettivo è renderli strumenti concreti per permettere ai Paesi di collaborare, ciascuno con i propri percorsi e rispettivi interessi, per trovare una strada condivisa per uscire dai combustibili fossili definitivamente.
Qualcuno ha provato a reagire, soprattutto i paesi dell’America Latina: invece che attendere la prossima COP la Colombia si è offerta di tenere, in collaborazione con l’Olanda, la prima conferenza internazionale Just Transition Away from Fossil Fuels (28-29 aprile 2026 a Santa Marta, sulla costa settentrionale della Colombia), con l’obiettivo di creare strategie condivise tra gli oltre 80 firmatari della roadmap per l’abbandono dei combustibili fossili. <<La Colombia ritiene si dispongano prove scientifiche sufficienti per affermare che oltre il 75% delle emissioni globali di gas serra proviene dai combustibili fossili>>, ha dichiarato alla stampa Daniela Durán González, delegata colombiana per il clima. <<Riteniamo quindi che sia giunto il momento che la Convenzione sui cambiamenti climatici ONU inizi a discutere di questo fatto>>.
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A dieci anni dall'Accordo di Parigi
Il debole risultato politico è stato una pessima celebrazione dell’Accordo di Parigi. Le responsabilità vanno cercate innanzitutto tra i Petrostati, che si oppongono anche solo ad iniziare a discutere come fermare la dipendenza dalle fonti fossili: Paesi del Golfo, Russia, Polonia e ovviamente gli Usa, sempre di più i pariah della decarbonizzazione, dato che sono i primi responsabili per le emissioni di gas serre accumulate complessivamente in atmosfera. Ma non solo: l’Europa è risultata debole, divisa tra una maggiore ambizione e una indecisione di stati che non hanno capito la grande opportunità economica e strategica, come Italia, Ungheria e Polonia. Infine, la Cina, che molti si aspettavano avrebbe giocato un ruolo più forte all’interno dei negoziati, si è limitata a ribadire il proprio impegno sulla decarbonizzazione (fortissimo peraltro) e a difendere il processo multilaterale dell’UNFCCC.
La presidenza brasiliana, guidata da André Correa Do Lago, ha provato in tutti i modi a ottenere un risultato importante, ma ha dovuto capitolare sulle fossili e sulle foreste, nonostante il lancio del Tropical Forest Forever Facility. Ha cercato un risultato troppo ambizioso, in una location che ha reso tutto più difficile, senza lavorare per tempo con i Petrostati.
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Appuntamento a novembre 2026 in Turchia
Il mondo della società civile si è schierato in maniera quasi unanime per mettere sotto osservazione il processo negoziale, che sempre più richiede una vera riforma, partendo già da COP31. Il prossimo negoziato sul clima si terrà a novembre 2026 in Turchia, con co-presidenza australiana in rappresentanza dei paesi insulari del Pacifico (con una pre-COP da tenersi in una nazione del Pacifico). Si torna ad un negoziato di transizione, senza le eccessive aspettative generate dalla presidenza brasiliana e dai media (la scelta di farlo nell’area amazzonica ha mobilitato il più alto numero di giornalisti di sempre), organizzato in un luogo prevedibile e facilmente raggiungibile. Se COP30 ha rivissuto il caos negoziale e il disastroso fallimento del summit di Copenaghen del 2009, COP31 ha le carte per iniziare a mettere le fondamenta per un rinnovo del processo, esattamente come accadde nel 2010 a Cancun, alla COP16, dove vennero messe le basi per l’Accordo di Parigi. Serve prepararsi per arrivare pronti al 2030 con la revisione di alcune regole e un’idea chiara di come deve essere tutelata e organizzata l’implementazione dell’Accordo di Parigi, lavorando con il Segretariato ONU per creare un vero Consiglio di sicurezza per l’Ambiente e il Clima. La pace globale passa anche per la sicurezza climatica e ambientale.
Articolo scritto da Emanuele Bompan
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28/11/2025