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Le bioplastiche: il futuro è loro, ma la crescita è lenta

Le bioplastiche: il futuro è loro, ma la crescita è lenta

Le bioplastiche rappresentano attualmente circa lo 0,5% dei quasi 414 milioni di tonnellate di plastica prodotti annualmente. È quanto emerge dall’ultimo Rapporto pubblicato da European Bioplastics, l’Associazione europea dei produttori di bioplastica.

Si tratta ancora di una goccia nel mare, ma destinata a crescere, così come continua a crescere la produzione globale complessiva di plastica. Secondo le previsioni dell’Associazione, che ha da poco trasferito il proprio quartier generale da Berlino a Bruxelles, la capacità produttiva globale di bioplastiche passerà da circa 2,47 milioni di tonnellate nel 2024 a circa 5,73 milioni di tonnellate nel 2029.

Questo sviluppo è trainato dalla crescente domanda di mercato, unita all'emergere di applicazioni e prodotti sempre più sofisticati. Oggi, di fatto, esistono alternative bioplastiche per quasi tutti i materiali plastici convenzionali e le relative applicazioni. Grazie al forte sviluppo di polimeri bio-based e biodegradabili, come acido polilattico (PLA), poliidrossialcanoati (PHA), polietilene biobased (PE), nonché alla costante crescita del polipropilene bio-based (PP), il peso delle bioplastiche nello scenario globale crescerà dunque in modo significativo.

Ma quali sono i settori produttivi dove le bioplastiche trovano le maggiori applicazioni?
Si va dal packaging, che resta il segmento più ampio di mercato con circa il 45% del totale nel 2024 (1,12 milioni di tonnellate), ai beni di consumo, fino all’automotive e ai prodotti agricoli.

 


La produzione di plastica in Europa
<<La plastica – ci spiega Francesco Paolo La Mantia, professore emerito all’Università di Palermo e uno dei massimi esperti italiani di polimeri - è caratterizzata da un’ampia varietà di proprietà, come la bassa densità, la scarsa conducibilità elettrica, la facile lavorabilità in infiniti tipi di oggetti, che l’hanno resa praticamente indispensabile in molteplici applicazioni>>.

In Europa, più del 99% della plastica vergine viene prodotta usando come materie prime petrolio e gas naturale, e i combustibili fossili vengono impiegati anche per la generazione del calore necessario durante il processo produttivo. Ciò comporta l’immissione in atmosfera di circa 1,2 kg di CO2 per ogni chilogrammo di plastica, considerando la sola fase di produzione. Se si esaminano anche le emissioni di CO2 relative all’estrazione e alla raffinazione dei combustibili fossili, per la produzione di un chilogrammo di plastica si ha un totale di circa 1,7 kg di emissioni dirette di CO2.

<<Il crescente impiego di bioplastica - sottolinea La Mantia - ha perciò una funzione importante in termini di decarbonizzazione>>.



Che cos’è la bioplastica: definizione
Secondo la definizione europea, la bioplastica è quella plastica che deriva da materie prime vegetali (bio-based), che ha le caratteristiche di essere biodegradabile e compostabile o che presenta entrambe le proprietà (bio-based e biodegradabile e compostabile).

La definizione italiana, adottata da Assobioplastiche, considera invece come bioplastiche soltanto le plastiche biodegradabili e compostabili, che siano esse di natura vegetale oppure fossile. Questo perché la biodegradabilità della plastica non si associa univocamente a un’origine vegetale o fossile, ovvero ci possono essere plastiche fossili biodegradabili e compostabili, plastiche vegetali non biodegradabili oppure mix di origine sia vegetale sia fossile all’interno dello stesso prodotto.

Le plastiche a base vegetale sono realizzate utilizzando materie prime vegetali, come ad esempio mais, canna da zucchero, cellulosa. Alcuni polimeri possono essere costituiti da monomeri che sono ottenuti sia da biomassa (bio-based) che da fonti fossili. In questo caso il polimero viene detto parzialmente bio-based e la sua percentuale di bio-based viene calcolata come rapporto fra la quantità di monomero proveniente da fonti vegetali rispetto al peso totale dei monomeri utilizzati per polimerizzare il polimero. Dal punto di vista dell’analisi di mercato, non esiste un’efficace distinzione che consenta di distinguere i prodotti 100% bio-based dalle bioplastiche fossili e dai mix fossili/vegetali, ma vengono più comunemente distinte in base al fine vita (biodegradabile e compostabile o meno).

Le plastiche biodegradabili sono, invece, materiali che possono biodegradarsi, un processo in cui microorganismi scindono i legami chimici delle molecole attraverso enzimi specifici, trasformando tali molecole in anidride carbonica (CO2) e acqua. I processi di biodegradazione dipendono dalle condizioni ambientali circostanti, dal tempo di biodegradazione e del materiale.

 

Biodegradabilità e origine bio-based: la differenza
La biodegradabilità delle plastiche e l’origine bio-based sono, quindi, due concetti molto differenti: è possibile che materiali al 100% a base vegetale non siano biodegradabili e che materiali provenienti da fonti fossili possano biodegradarsi. Questa caratteristica è particolarmente rilevante nella questione delle emissioni di CO2 poiché laddove viene utilizzata plastica biodegradabile ma di origine fossile si ha un’emissione di 1,7 kg di CO2/kg plastica prodotta. A queste si aggiungono altri 3,1 kg di CO2/kg di plastica qualora i rifiuti plastici vengano bruciati. La maggior parte delle bioplastiche compostabili presenti sul mercato sono, almeno parzialmente, di origine vegetale e, grazie alla continua ricerca e innovazione del settore, la percentuale di biomassa è in progressivo aumento.

In Italia, lo sviluppo di questo mercato è stato favorito da una serie di misure legislative, soprattutto quelle relative all’utilizzo di sacchi compostabili per la raccolta del rifiuto organico. I campi di applicazione più importanti per questi polimeri sono la produzione di sacchi per la raccolta della frazione organica dei rifiuti e di borse per la spesa e l’agricoltura.

La compostabilità è una caratteristica vantaggiosa soprattutto quando i prodotti in bioplastica vengono trattati con i rifiuti organici. L’impiego di un sacchetto compostabile, ad esempio, costituisce un vantaggio perché consente di trattare allo stesso modo e insieme sia il rifiuto organico che il sacchetto che lo contiene, destinandoli entrambi a impianti di compostaggio.

Tuttavia - fanno presente gli addetti ai lavori - affinché la raccolta e il trattamento dei rifiuti sia efficace, è necessario che tutta la filiera dell’organico venga indirizzata a modelli di alta qualità evitando la massiccia presenza di materiali indesiderati, a partire dalla plastica tradizionale. È inoltre necessario che la filiera sappia riconoscere e gestire le bioplastiche. Per come sono fatti attualmente gli impianti di compostaggio e digestione anaerobica, che raccolgono la frazione organica dei rifiuti, i sacchetti in bioplastica rischiano di essere separati come materiali di scarto e di essere destinati agli inceneritori o alle discariche.


Bioeconomia volano per le bioplastiche in Ue
<<L’Unione europea - ci dice Mariagiovanna Vetere, direttrice Global Public Affairs della multinazionale americana NatureWorks, leader nel mercato del PLA - sta provando a cambiare marcia sul ruolo dei biopolimeri nell’economia comunitaria. Il regolamento imballaggi ha evidenziato come le plastiche compostabili siano una valida alternativa per alcune applicazioni, ma sarà la bioeconomia il vero volano per le bioplastiche che la Ue sta valutando tramite varie consultazioni e proposte legislative>>.

<<Quello che serve ora - mette in evidenza Vetere - è una buona dose di coraggio da parte delle istituzioni europee per concludere il processo virtuoso che hanno iniziato, che sarà costellato di ostacoli posti soprattutto dall’industria tradizionale che è ostile al cambiamento>>.

Articolo scritto da Felice Amori

Questo blog è un progetto editoriale sviluppato da Ecomondo con Materia Rinnovabile

 


Bibliografia:


Credits:

 

 

 

 

 

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21/07/2025

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