L’AFRICA DA DISCARICA DEI RIFIUTI TESSILI A CULLA DELLA MODA SOSTENIBILE
L’influsso della moda africana non è soltanto un fenomeno del passato: alla London Fashion Week di metà settembre, ad esempio, stiliste e stilisti da diverse aree dell’Africa hanno riscosso l’attenzione di pubblico e addetti ai lavori. A Milano l’Afro Fashion Week suscita altrettanto interesse e lo stesso vale per l’Africal Fashion Up di Parigi.
Fino al 29 dicembre chi visiterà il Museum at FIT (Fashion Institute of Technology) di New York, oltre ai 50mila capi della mostra permanente può trovare un’exhibition intitolata Africa's Fashion Diaspora: un viaggio tra le influenze e le contaminazioni della cultura africana, o per meglio dire “delle culture africane”, nella moda e nella società attuale. L’influsso della moda africana non è soltanto un fenomeno del passato: alla London Fashion Week di metà settembre, ad esempio, stiliste e stilisti da diverse aree dell’Africa hanno riscosso l’attenzione di pubblico e addetti ai lavori. A Milano l’Afro Fashion Week suscita altrettanto interesse e lo stesso vale per l’Africa Fashion Up di Parigi. Ma insieme alle prime sfilate africane di grandi marchi del lusso come Chanel e Dior, il segnale più rilevante è dato dalle 32 settimane della moda che si svolgono in un anno nel continente, con un valore delle esportazioni valutato complessivamente intorno ai 15 miliardi di dollari.
UN MERCATO PICCOLO MA IN CRESCITA COSTANTE
C’è anche un mercato interno in forte crescita, perché – dicono sempre più spesso gli analisti del settore – “gli africani vogliono indossare l’Africa”. Certo, il valore complessivo del mercato continentale supera di poco l’1% di quello globale (31miliardi di dollari contro i 2.500 miliardi di quello globale), ma non si può non considerare che tra poco più di un quarto di secolo la popolazione africana, oggi composta da 1,3 miliardi di persone, raddoppierà. Di pari passo cresce la quantità di persone giovani impegnate nel disegnare capi che ricorrono spesso a tecniche di tessitura tradizionali per realizzare modelli in grado di reinterpretare le identità del continente alla luce degli stili contemporanei.
A ottobre 2023, in occasione della Lagos Fashion Week, l’Unesco ha pubblicato un rapporto, in primo di questo genere dedicato al continente, intitolato "The Fashion Sector in Africa: Trends, Challenges and Opportunities for Growth", da cui emerge la previsione di un aumento del 42% della domanda di moda africana nei prossimi 10 anni. Il report conferma che il trend è spinto dalla voglia di moda made in Africa da parte dalle persone più giovani (la metà della popolazione è under 25) e della classe media (che rappresenta il 35% della popolazione), ma anche dalla sempre maggiore digitalizzazione che facilita gli scambi e la visibilità per stiliste e stilisti emergenti. Il rapporto Unesco non ha dubbi: l’Africa ha tutte le carte in regola per acquisire una posizione di grande rilievo nella moda globale, anche in considerazione del fatto che “è un importante produttore di materie prime (37 Paesi su 54 producono cotone), un esportatore di tessuti per un valore di 15,5 miliardi di dollari all'anno e un importatore di tessuti, abbigliamento e calzature per un valore di 23,1 miliardi di dollari all'anno”.
UN PERCORSO ACCIDENTATO VERSO LA SOSTENIBILITÀ
Restano ovviamente delle criticità da superare: scarse tutele per designer e altre professionalità del settore, necessità di maggiore supporto al tessuto di piccole e medie imprese (il 90% del totale del settore moda) che caratterizza il continente, scarsi investimenti sulla formazione e sulla trasmissione delle competenze e, non meno importante, l’urgenza di fissare standard ambientali.
“Mentre l'industria della moda rimane una delle più inquinanti, l'Africa può fare un uso maggiore di materiali locali, innovare attorno ai tessuti sostenibili e aumentare la consapevolezza dei modelli di consumo sostenibili” si legge nel report Unesco. La produzione di fibre di cotone biologico in Africa è già aumentata del 90% tra il 2019 e il 2020 e ora rappresenta il 7,3% della produzione globale. Il mercato dell'abbigliamento di seconda mano è uno dei più dinamici al mondo, rappresentando un terzo delle importazioni globali, ma soffre ancora della mancanza di canali di riciclo, con il 40% di questi indumenti che finiscono nelle discariche o addirittura negli oceani e nei fiumi.
© afrofashion.org
“LE SFIDE AMBIENTALI? CI PENSIAMO IN FUTURO”
Tutti i dati relativi agli impatti del settore in Africa vanno analizzati considerando che parliamo di un continente vasto e molto diversificato. Emissioni di anidride carbonica e inquinamento delle acque, ad esempio, sono mediamente a livello molto più bassi che in altre aree del Pianeta, ma se si focalizza l’attenzione su Egitto, Mauritius, Marocco e Tunisia si noterà che gli impatti si avvicinano molto a quelli dei mercati maturi e, contestualmente, è più sviluppata anche la consapevolezza della necessità di affrontarli e ridurli. Alla Conferenza Onu sul clima del 2022, la Cop27 di Sharm el Sheik, il ministero dell’Ambiente egiziano ha presentato l’iniziativa Green Fashion: un piccolo segnale di attenzione partito nel 2018 coinvolgendo 50 donne nella produzione di poco più di 60mila capi caratterizzati da una maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale. E se da un lato ci si chiede come affrontare la sfida del clima e quella di una sempre minore disponibilità d’acqua a fronte dell’intenzione di incrementare ulteriormente la produzione di cotone, dall’altra gli operatori del settore – intervistati dal team che ha realizzato il rapporto – hanno dato scarsa attenzione alle sfide ambientali, evidenziando al più la necessità di monitorare gli impatti soltanto una volta che il settore moda in Africa sarà cresciuto.
SECOND HAND E UPCYCLING ALLEATI PER INNOVARE
Ma la moda e il tessile “made in Africa” passano anche da un settore tanto fondamentale quanto problematico: quello del second hand. Se da una parte ha rappresentato e rappresenta un rischio ambientale non irrilevante, la grande quantità di capi e accessori dismessi importati in diverse aree del continente ha influito sia nel creare un mercato interno dell’usato sia nel guidare le innovazioni stilistiche.
Riutilizzo e riciclo di abiti dismessi hanno dato vita, in diverse aree, a filiere economiche e competenze qualificate: basti pensare alle sarte e ai sarti, alle stiliste e agli stilisti che ridisegnano e modificano capi e accessori dando loro una nuova forma e una nuova vita. Un caso di particolare rilievo è quello del marchio di accessori Suave Studios, nato a margine del più grande mercato di abiti usati dell’Africa orientale, quelli di Gikomba a Nairobi. Le maestranze di Suave Studios trasformano i capi e accessori importati in articoli alla moda molto apprezzato da giovani e non solo, attratti alla possibilità di avere capi “personalizzati”, dal prezzo non esorbitante e anche dal valore ambientale della scelta.
Secondo Adwoa Owusuaa Bobie, ricercatrice della ghanese Kwame Nkrumah University of Science and Technology e autrice dello studio “Prèt-a-Porter personalizzato: la risposta dell'Africa occidentale alla ricerca di una moda sostenibile”, queste forme di upcycling di un capo o un accessorio, vale a dire il riuso creativo che ne migliora la qualità o il valore, rafforzano il legame con chi lo possiede, che dunque lo conserva più a lungo anche grazie al fatto che spesso chi progetta il capo ne suggerisce il lavaggio a mano.
STILISTI CONTRO I DANNI DEL FAST FASHION
“Qual è la risposta al fast fashion? Gli stilisti africani cercano soluzioni a un problema che arriva a casa loro”. Così un recente reportage della CNN raccoglie diverse esperienze di persone che nel continente Africano cercano di dare una risposta creativa e propositiva al dramma delle grandi discariche a cielo aperto di tessili e accessori che arrivano dall’Europa e da altri Paesi ma che in realtà spesso non si possono riutilizzare. In Ghana arrivano annualmente 152.600 tonnellate di abiti di seconda mano, quasi lo stesso quantitativo di rifiuti tessili (160mila tonnellate, equivalenti a circa mezzo miliardi di capi) prodotti in un anno in Italia. Li chiamano Oburoni Wawu, letteralmente “vestiti dell’uomo bianco morto”. Arrivati al porto di Tema, il più grande del Paese, e finiscono nel 70% dei casi al gigantesco mercato di Kantamanto ad Accra, dove 30mila persone sono pronte a selezionarli, lavarli e ricavarne il maggior valore possibile. Un valore che, però, con la moda usa e getta è sempre più basso: così quel materiale spesso molto inquinante finisce disperso in natura o bruciato. Oltre che in Ghana, il commercio di vestiti di seconda mano giunti dal Nord del Pianeta è molto diffuso in Kenya, Nigeria, Tanzania, Sudafrica, Uganda e altri Paesi. La qualità sempre più scadente della merce che arriva dall’estero riduce la possibilità di una seconda vita e amplifica gli impatti ambientali, mentre come già accennato in Africa non esiste ancora un’industria del riciclo che possa recuperare le fibre. Nel 2021 – riporta Greenpeace – circa 458 milioni dei 900 milioni di vestiti usati importati in Kenya erano senza valore. Dati più recenti suggeriscono che nel Paese tra il 20 e il 50% degli indumenti acquistati viene buttato via perché non riutilizzabile.
È probabilmente anche per questa ragione che alcuni Paesi come il Sudafrica stanno anche cercando di arginare l’importazione di fast fashion con l’aumento delle tasse d’importazione. Ed è sicuramente per questa ragione che eventi come la South Africa Fashion Week o la Lagos Fashion Week hanno progressivamente sempre più spazio a scelte orientate alla sostenibilità, alla minimizzazione degli scarti e degli impatti. Perché se è vero che sempre più gli africani vogliono “indossare l’Africa” è anche vero che sempre meno la vogliono avvelenare e “rubare” alle future generazioni.
Articolo di Raffaele Lupoli, direttore responsabile di EconomiaCircolare.com