GREENWASHING, COSÌ L’UNIONE EUROPEA SI ATTREZZA PER CONTRASTARLO
Poche settimane fa, dopo l’approvazione in Canada di una legge che vieta di diffondere affermazioni ambientali fuorvianti, un gruppo di aziende che promuovono un progetto di cattura di carbonio proveniente dalla loro attività di estrazione di sabbie bituminose ha deciso di chiudere il sito web del progetto.
La ragione ufficiale è l’incertezza prodotta dalle nuove norme, ma se le imprese coinvolte riaffermano la bontà e la correttezza delle loro comunicazioni, il fronte ambientalista ritiene che la chiusura del sito e la cancellazione delle informazioni sul programma rappresenti la pistola fumante: a loro avviso, l’arrivo della normativa canadese ha smascherato uno dei tanti casi di greenwashing messi in atto dalle aziende petrolifere e più in generale di quelle più impattanti.
Il 17 luglio scorso la Changing Markets Foundation ha denunciato in un report le tattiche utilizzate dalle principali aziende di carne e latticini per “distrarre, ritardare e ostacolare l’azione per il clima”. Il dossier, intitolato “The New Merchants of Doubt” ha preso in esame le 22 principali aziende al mondo rivelando come le lobby del settore spingano verso soluzioni tecnologiche volontarie troppo soft, diffondendo informazioni fuorvianti e investendo molto più in marketing e pubblicità che in ricerca e sviluppo per ridurre gli impatti.
UNA PRATICA DIFFUSA CHE NON PIACE AI CONSUMATORI
Si tratta di casi. A gennaio 2023 Harris Poll ha condotto un sondaggio per conto di Google Cloud intervistando circa 1.500 dirigenti d’azienda il 17 Paesi e 7 settori per verificare il loro punto di vista sul rischio greenwashing: è emerso che quasi tre quarti del campione ritiene che un’indagine approfondita sulle imprese del loro settore farebbe emergere casi di greenwashing e l'85% afferma che i clienti mostrano una crescente attenzione per i marchi impegnati in percorsi di sostenibilità. A riprova di ciò, da un sondaggio condotto nel 2023 da KPMG su 2.000 persone nel Regno Unito, è emerso che il 54% dichiara che non acquisterebbe più i prodotti di un’azienda se si scoprisse che le sue affermazioni sulla sostenibilità sono fuorvianti.
Insomma, il tema è costantemente sotto i riflettori, perché di fronte alla gravità della crisi climatica e dello sfruttamento ormai fuori controllo delle risorse naturali i settori più inquinanti sono davanti a un bivio: cambiare radicalmente il loro business o cambiare soltanto la comunicazione tingendola di verde. È sempre più difficile, però, che questa seconda opzione abbia successo, sia per la crescente presa di coscienza dell’opinione pubblica sia per l’intervento di norme volte ad arginare il fenomeno.
BANCHE E FINANZA SOTTO LA LENTE
Le modalità con cui le aziende possono cadere, anche inconsapevolmente, in casi di greenwashing sono tante e diverse. E il problema riguarda anche i prodotti finanziari, al punto che l'Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) ha emanato la scorsa primavera nuove linee guida per l'uso di termini ESG e relativi alla sostenibilità nei nomi dei fondi di investimento. Con le nuove regole, rivela un report di Morningstar, due terzi dei fondi che nell'Unione europea venivano associati a termini legati alla sostenibilità o ai criteri ESG potrebbero dover cambiare nome, con disinvestimenti azionari fino a 40 miliardi di dollari se tutti mantenessero i loro nomi.
Passando al settore bancario, un recente rapporto della Bana Centrale Europea intitolato “Business as usual: bank climate commitments, lending and engagement” ha acceso i riflettori sugli impegni volontari del settore bancario nell’affrontare le crisi climatica, rilevando che le banche che hanno assunto maggiori impegni climatici non fanno registrare una riduzione maggiore di crediti concessi ai settori più impattanti rispetto a quelle che non hanno comunicato impegni in tal senso, “il che suggerisce che non stanno disinvestendo attivamente”. Insomma, conclude il report, “questi risultati mettono in discussione l'efficacia degli impegni volontari”.
LE DUE DIRETTIVE EUROPEE
L’Unione Europea ha deciso di intervenire con un mix di misure per reagire a un fenomeno che la Commissione in carica dal 2019 al 2024 ha sintetizzato con quattro dati:
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il 53% dei cosiddetti “green claims”, le dichiarazioni che raccontano la sostenibilità di prodotti e servizi, contiene informazioni vaghe, fuorvianti o infondate;
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4 dichiarazioni ambientali su 10 non si basano su prove che ne possano confermare la veridicità;
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il 50% delle etichette che raccontano la sostenibilità è supportato da elementi di verifica deboli o inesistenti;
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il proliferare di marchi ed etichette “green” confonde le persone: nell’Ue ci sono 230 etichette legate alla sostenibilità e 100 riguardanti l’energia “verde”, “con livelli di trasparenza molto diversi” spiega la Commissione.
L’intervento europeo si è focalizzato in particolare su due direttive strettamente connesse, la 2024/825 sulla tutela dei consumatori nell’ambito della transizione verde, denominata sinteticamente direttiva Greenwashing o “Empowering” è già in vigore, e l’altra finalizzata a disciplinare l’uso delle dichiarazioni di sostenibilità, definita direttiva Green claims, che ancora non ha completato il suo iter di approvazione ed è destinata a integrare e rendere esecutiva la direttiva Greenwashing.
DIRETTIVA GREENWASHING: DALLA PARTE DEI CONSUMATORI
Il primo dei due provvedimenti è entrato in vigore il 27 marzo 2024 e riguarda il rafforzamento (in inglese empowering) “dei consumatori per la transizione verde attraverso una migliore protezione dalle pratiche sleali e una migliore informazione”. La direttiva modifica due precedenti direttive (2005/29/EC e 2011/83/EC), prevede specifiche categorie di “marketing ambientale” ritenute sleali e introduce nuove pratiche commerciali vietate nella black list di cui all’allegato I della Direttiva 2005/29/CE. La più rilevante delle condotte proibite riguarda l’esibizione di marchi di sostenibilità “non basati su un sistema di certificazione o non istituiti da autorità pubbliche”.
In pratica, l’impresa che comunica le proprie pratiche orientate alla sostenibilità attraverso un marchio deve ottenere una valutazione di conformità da parte di soggetti terzi indipendenti, che verifichino la fondatezza del contenuto della dichiarazione in coerenza con standard internazionali come la norma ISO 17065, che disciplina il funzionamento degli organismi di certificazione di prodotti, processi e servizi. Le certificazioni istituite dalle autorità pubbliche invece sono ad esempio quelle che attestano la conformità ai regolamenti EMAS (CE) n. 1221/2009 o ECOLABEL UE (CE) n. 66/2010: i prodotti con marchio Ecolabel, dunque, non necessitano di ulteriori prove e certificazioni ai fini dell’utilizzo di marchi di sostenibilità.
DIMOSTRARE L'ECCELLENZA DELLE PRESTAZIONI AMBIENTALI
La direttiva vieta il ricorso a un’asserzione ambientale generica – come ecofriendly, green, amico della natura e così via – in assenza di un’eccellenza riconosciuta e dimostrabile delle prestazioni ambientali pertinenti all’asserzione. Ma come si dimostra l’eccellenza delle prestazioni ambientali? La direttiva fa riferimento appunto alla conformità al regolamento (CE) n. 66/2010 e dunque all’Ecolabel, o a un sistema di assegnazione di marchi di qualità ecologica EN ISO 14024 riconosciuto ufficialmente negli Stati membri, o ancora “corrispondendo alle migliori prestazioni ambientali per una caratteristica ambientale specifica in conformità di altre normative dell’Unione applicabili, quali una classe A ai sensi del regolamento (UE) 2017/1369 del Parlamento europeo e del Consiglio”. L’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali dovrebbe essere rilevante ai fini dell’intera asserzione e, inoltre, non è consentito formulare un’asserzione generica come «consapevole», «sostenibile» o «responsabile» basata esclusivamente sull’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali, in quanto questo genere di claim riguarda altre caratteristiche oltre a quelle ambientali, come le caratteristiche sociali.
L'IMPORTANZA DEL MADE IN ITALY
Di particolare interesse, in Italia, lo schema volontario denominato “Made green in Italy”, istituito dalla legge n. 221 del 2015 (art. 21, comma 1): l’aggettivo “green” che questo marchio aggiunge al made in Italy è frutto di una misurazione delle performance ambientali basata sulla Product environmental footprint (PEF), metodo messo a punto dalla Commissione europea per calcolare l'impatto ambientale di un prodotto attraverso linee guida basate sull’analisi del ciclo di vita e su standard internazionali consolidati, come ISO 14000/44. I prodotti che vogliano fregiarsi del marchio “Made Green in Italy” devono sottomettere il loro studio di impronta ambientale alla verifica di soggetti terzi indipendenti e accreditati.
VIETATO COMUNICARE LA PARTE PER IL TUTTO
Un’altra pratica ingannevole vietata e quindi aggiunta all’elenco dell’allegato I della direttiva 2005/29/CE è il green claim ambientale che definisce il prodotto o l’attività dell’operatore economico nel suo complesso mentre in realtà riguarda soltanto un determinato aspetto del prodotto o un elemento specifico e non rappresentativo dell’attività dell’operatore economico. L’esempio che fa il legislatore europeo è la comunicazione su un prodotto “realizzato con materiale riciclato” che dà l’impressione che lo sia l’intero prodotto, mentre in realtà solo l’imballaggio è stato realizzato con materiale riciclato, o se un operatore economico dà l’impressione di utilizzare soltanto fonti energetiche rinnovabili quando in realtà vari impianti dell’operatore economico utilizzano ancora combustibili fossili.
PROPOSTA DI DIRETTIVA GREEN CLAIMS: LA POSIZIONE DEL CONSIGLIO UE
Come accennato, la direttiva Greenwashing è in stretta correlazione con la proposta di direttiva Green Claims, che sarà oggetto di negoziato tra l’Europarlamento appena insediato e il Consiglio europeo, che allo scadere della passata legislatura europea ha approvato il proprio general approach modificando in molti punti il testo approvato dall’Eurocamera.
Se resta, infatti, fermo il principio per cui le dichiarazioni ecologiche si devono fondare su prove scientifiche verificata da esperti terzi indipendenti prima di essere pubblicate, il Consiglio è intervenuto con l’obiettivo di “ridurre l’onere amministrativo e finanziario per gli operatori”.
Questo implica, ad esempio, che per alcuni claim di minore complessità sia possibile una procedura semplificata, tramite la compilazione di una sorta di autocertificazione definita “documentazione tecnica specifica”, il cui contenuto dovrà essere definito nei dettagli dalla Commissione a valle dell’ok definitivo alla direttiva. La posizione adottata dal Consiglio Ue esclude dalla procedura semplificata le affermazioni di tipo comparativo, quelle relative al clima o che riguardano prestazioni ambientali future.
L'IMPORTANZA DI UNA COMUNICAZIONE CHIARA
Il Consiglio si è anche concentrato sulla necessità di garantire per il green claim una comunicazione chiara, che non indugi sulle caratteristiche tecniche, le quali dovranno in ogni caso essere messe a disposizione di chi voglia approfondire, ad esempio tramite Qr code, nel passaporto digitale del prodotto introdotto dal Regolamento Ecodesign o nel “portale digitale unico istituito dal regolamento (UE) 2018/1724 con la sua interfaccia utente Your Europe e i portali nazionali associati”. Quanto poi alla necessità di ricorrere alla verifica e validazione di soggetti terzi indipendenti, stando alla posizione del Consiglio europeo, gli Stati membri potranno scegliere di esentare queste etichette dalla verifica da parte di terzi “se le norme e le procedure di verifica applicabili soddisfano determinati criteri, tra cui l’equivalenza” rispetto alle procedure della normativa europea.
COMPENSARE LE EMISSIONI NON BASTA
Un altro elemento di continuità tra le due direttive è il divieto di dichiarare che un prodotto ha un impatto neutro, ridotto o positivo sull’ambiente basando tele dichiarazione sulla compensazione delle emissioni di gas a effetto serra prodotte. Il principio base, in questo caso, è che le emissioni vanno ridotte il più possibile riprogettando il ciclo produttivo e, come proposto dalla posizione votata dall’Europarlamento, la possibilità di citare il ricorso a schemi di compensazione si deve limitare soltanto alle cosiddette “emissioni residue”, quelle che cioè non è stato possibile ridurre in altri modi. Anche in questo caso, sarà la Commissione Ue a valle dell’approvazione definitiva a definire nel dettaglio quando si può parlare di emissioni residue. Su questo punto il Consiglio ha proposto che, ai fini della comunicabilità, “nelle richieste di compensazione, le aziende devono dimostrare di aver raggiunto un obiettivo netto pari a zero e di aver compiuto progressi verso la decarbonizzazione, nonché la percentuale di emissioni totali di gas serra compensate”.
L'IMPORTANZA DELLA FORMAZIONE
Davanti alla portata di questi provvedimenti, sia quello già in vigore sia quello in attesa di approvazione definitiva, è evidente la necessità di predisporre un’intensa attività di formazione e di supporto alle imprese e alle organizzazioni, per fare in modo che la loro comunicazione di sostenibilità sia corretta ed efficace. Anche in considerazione del fatto che, nella posizione negoziale approvata del Parlamento europeo sulla proposta di direttiva Green Claims, le aziende che infrangono le norme potrebbero incorrere in sanzioni come l’esclusione temporanea dalle gare d'appalto pubbliche o multe pari almeno al 4% del loro fatturato annuo. Fin dalla sua nascita nel 2020, il magazine EconomiaCircolare.com ha acceso i riflettori su questa esigenza affiancando all’analisi della normativa e dei casi – talvolta anche giudiziari – di greenwashing l’organizzazione di momenti formativi e di attività di supporto alle imprese. Il tema sarà anche oggetto di un focus specifico nel corso dell’edizione 2024 di Ecomondo: coinvolgeremo diversi soggetti del mondo della misurazione e della certificazione, per supportare le organizzazioni nella difficile quanto necessaria sfida di adottare le scelte giuste in materia di sostenibilità e di comunicarle “a prova di greenwashing”.
Un articolo di Raffaele Lupoli
direttore responsabile di EconomiaCircolare.com