Dagli abissi profondi fino alla superficie, non sarà facile rendere l’economia degli oceani un modello circolare. Pesca intensiva, porti e autostrade del mare da decarbonizzare, produzione di energia pulita e nuove frontiere dell’estrazione mineraria (deep-sea mining) sono soltanto alcuni dei temi aperti per rendere la Blue Economy come la definiva Gunter Pauli, cioè basata sulla rigenerazione degli ecosistemi in una logica di abbondanza e autonomia.


Volendo inoltre dare delle cifre, ad oggi la Blue economy in Europa genera a livello europeo circa 665 miliardi di euro di fatturato e quasi 4.5 milioni di posti di lavoro, mentre a livello italiano essa assicura circa 50 miliardi di euro annui e 800.000 posti di lavoro. Un’intera filiera da accompagnare nella transizione. 
 

L’impatto di pesca e acquacoltura. Alghe possibile sostituto?

Secondo la FAO, nel 1960 gli esseri umani consumavano in media 9,9 chili di pescato pro capite all'anno. Un dato che oggi è più che raddoppiato, arrivando a raggiungere 20,2 chili pro capite, con un volume di produzione annuale di 214 milioni di tonnellate. Quantità che rappresentano circa quasi il 7% delle proteine assunte dalla popolazione mondiale.

Tuttavia, l’industria della pesca ha un forte impatto sugli stock ittici mondiali. Sempre secondo la FAO, il 58 % di questi è sfruttato ai massimi livelli. Per non parlare del fenomeno della pesca illegale o non soggetto a dichiarazione, che secondo gli esperti potrebbe essere circa il 14-33 % del totale; oppure dell’acquacoltura intensiva, che non rappresenta un’alternativa sostenibile al pesce selvatico.

Così, se da un lato è fondamentale iniziare a introdurre tecniche di pesca rispettose degli ecosistemi marini e basate su quote di pescato rigide, dall’altro si possono iniziare a sfruttare la coltura di alghe, vere e proprie fonti alternative per la produzione primaria di proteine. Macroalghe e microalghe - che tra le varie cose si distinguono per la loro capacità di convertire l'anidride carbonica in ossigeno – possono essere coltivati anche attraverso rifiuti organici ed eccesso di nutrienti provenienti dall'acquacoltura, come fosforo, azoto e CO₂. Inoltre, le alghe possono essere impiegate in una varietà di settori: dall’alimentazione alla nutraceutica per l'essere umano, ai mangimi destinati a pesci e animali, alla produzione di cosmetici o di biogas.

 

Porti e decarbonizzazione dello shipping

I porti sono uno dei settori chiave della Blue economy. Il trasporto marittimo, tuttavia, ha un forte impatto ambientale, che l’OCSE ha raggruppato in tre tipologie:

  • gli impatti legati all'attività portuale;
  • gli impatti legati alle navi che fanno scalo nel porto;
  • le emissioni delle reti di trasporto intermodale che servono il porto.

Secondo l’International Energy Agency, nel 2021 il trasporto marittimo internazionale è stato responsabile di circa il 2% delle emissioni globali di CO2 legate all'energia. Quota che è tornata al livello del 2015 e che, secondo gli esperti, rimarrà stabile fino al 2025 (si prevede un aumento delle attività) per poi iniziare a diminuire di circa il 3% all'anno entro il 2030.

Così, in Europa soprattutto, si è ormai avviato il rinnovo delle flotte e si studiano carburanti alternativi, come metanolo e idrogeno. Inoltre, si investe in misure on shore per decarbonizzare i porti ed elettrificare i consumi delle grandi navi ferme in banchina come il cold ironing.

Quantitativamente, una nave da crociera attraccata in banchina per 10 ore produce infatti la stessa quantità di anidride carbonica di 25 automobili di media cilindrata in un anno. Inotre, secondo il report ESPO Environmental Report – EcoPortsinSights 2019, il 90% dei porti europei si trova in contesti urbani, facendo così della decarbonizzazione e della gestione integrata della qualità dell’aria, dell’acqua e dei rumori un tema centrale non solo per la sostenibilità ma anche per l’accettazione pubblica di tali aree.

 

Energia dal mare: il potenziale dell’eolico off-shore

Secondo l’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili (IRENA), gli oceani contengono cinque volte il fabbisogno annuale d’elettricità dell’intero pianeta. Tuttavia, è difficile produrre energia in mare. L'ambiente marino è infatti estremamente ostile per le infrastrutture. Ma tempeste, onde violente e corrosione dovuta all’acqua salata non sono le uniche sfide. Oltre ai costi per i materiali, la variabilità di vento, onde e sole affligge la produzione di energia pulita, rendendola spesso intermittente.

Sicuramente, tra le varie fonti, gli impianti eolici in mare aperto sono quelli più promettenti. Secondo ANEV, attualmente in Europa risultano installati circa 11 GW di eolico offshore, di cui circa 5 GW solo in Gran Bretagna, con un potenziale complessivo previsto nel 2020 di circa 23 GW, di cui 12 GW solo in UK.

Inoltre, secondo il Global Wind Energy Council, l'Italia è il terzo mercato a livello mondiale per potenziale di sviluppo dell'eolico galleggiante. Infine, secondo i dati di Terna, le richieste di connessione di impianti eolici offshore in Italia ammontano a circa 100 Gw.

 

Minerali in fondo al mare

La transizione energetica è assetata di metalli critici. E, così come successo per la corsa all’oro nel vecchio Far – West , si stanno aprendo nuove frontiere. Una di queste è il deep-sea mining, lo sfruttamento minerario dei fondali abissali.

Il fondo del mare è infatti ricco di metalli preziosi come rame, cobalto, nichel, zinco, argento, oro, litio e terre rare. Risorse che si trovano in diverse formazioni sottomarine: nelle croste delle montagne, particolarmente ricche di cobalto; sotto forma di solfuri polimetallici in corrispondenza delle sorgenti idrotermali; nei noduli polimetallici che ricoprono le pianure abissali.

Tuttavia, i rischi ambientali sociali ed economici del deep-sea mining non sono ancora chiari. Per questo sono sempre più numerosi gli appelli di ONG locali e internazionali, leader e scienziati a favore di una moratoria internazionale su tale pratica. Ad oggi l’International Seabed Authority (ISA) ha messo deciso che non si procederà al deep sea mining fino al 2025. Tuttavia, prima della sospensione, l’ISA aveva già concesso 31 licenze esplorative che coprono un’area di 1,5 milioni di chilometri quadrati. 

 

Un articolo di Emanuele Bompan e Giorgio Kaldor