Nuovo piano per finanziare la cooperazione globale per il clima approvato a COP29 a Baku. Entro il 2035 si dovranno mobilitare 1.300 miliardi di dollari all’anno per aiutare i paesi i via di sviluppo a mitigare ed adattarsi al cambiamento climatico.

L’impegno dei paesi industrializzati però si ferma a 300 miliardi all’anno da arrivare ad erogare entro 11 anni, da fonti pubbliche e private o attraverso le banche per lo sviluppo, e invitando altri paesi di nuova industrializzazione a contribuire.

Dopo due settimane di negoziato durissimo il testo più atteso e discusso sulla finanza climatica, sui cosiddetti New Collective Quantified Goal (NCQG), è stato adottato, nonostante l’opposizione di vari LDC e di paesi come l’India che hanno cercato all’ultimo di bloccare l’approvazione.

Furiose le organizzazioni non governative del Global South che definiscono l’accordo irrilevante e deludente. Secondo Harjeet Singh, Global Engagement Director della Fossil Fuel Treaty Initiative "le nazioni sviluppate hanno ancora una volta costretto i Paesi in via di sviluppo ad accettare un accordo finanziario tristemente inadeguato ad affrontare la gravità della nostra crisi climatica globale. L'accordo non fornisce il sostegno critico necessario ai Paesi in via di sviluppo per passare rapidamente dai combustibili fossili a sistemi energetici puliti e rinnovabili, né per prepararsi agli impatti devastanti della crisi climatica, lasciandoli gravemente privi di risorse”.

Nonostante un contesto geopolitico polarizzato, il multilateralismo climatico sembra però resistere. L'impegno a mobilitare 1.300 miliardi di dollari all'anno rappresenta un passo avanti politico da parte dei paesi sviluppati, nonostante le posizioni ostili di nazioni come l'Arabia Saudita e lo stesso Azerbaigian, che non ha brillato nella gestione negoziale.



Tuttavia, i risultati complessivi della COP29 indicano un periodo difficile per l'Accordo di Parigi e la lotta al cambiamento climatico. Nel testo sulla riduzione delle emissioni (Mitigation Work Program) è scomparso il riferimento a limitare l'aumento delle temperature entro 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, e le decisioni sull'implementazione del Global Stocktake sono state rinviate al prossimo anno.

Eleonora Cogo, esperta di finanza internazionale presso il think tank italiano ECCO, ha evidenziato l'influenza degli interessi legati ai combustibili fossili, che hanno prevalso sia alla COP29 che al G20 di Rio, bloccando le azioni necessarie per la transizione verde. Ha inoltre criticato la spinta di tante nazioni, inclusa l’Italia, verso false soluzioni come gas, biocombustibili e nucleare, che rischiano di bloccare l'innovazione nell’efficientamento energetico e elettrificazione e limitare l'accesso sociale alla transizione.


IL NUOVO OBIETTIVO DELLA FINANZA CLIMATICA AL 2035

La stima del costo globale di mitigazione e adattamento per i paesi in via di sviluppo è stimata sui 5,1-6,8 mila miliardi di dollari fino al 2030, ovvero 455-584 miliardi di dollari all'anno, mentre il fabbisogno finanziario per l'adattamento è stimato in 215-387 miliardi di dollari all'anno fino al 2030. Dunque, quanto promesso come obiettivo auspicabile è abbastanza allineato a quanto stimano gli economisti. Sarà però da capire come trovare gli altri mille miliardi di dollari, visto che i paesi industrializzati hanno promesso “solo” 300 miliardi di dollari, da un'ampia varietà di fonti, pubbliche e private, bilaterali e multilaterali, comprese le fonti alternative” (tasse, climate-debt swap, filantropia). I recipienti dovranno essere paesi tra quelli più colpiti dal cambiamento climatico ma che meno di tutti contribuiscono alle emissioni cumulative di gas serra e potranno usare le risorse per realizzare i propri NDC, i piani di adattamento nazionali (NAP) e comunicazioni sull'adattamento.


I MERCATI DELLA CO2

A Baku è stato finalizzato l’ultimo articolo dell’Accordo di Parigi che non era ancora stato resto del tutto operativo, quello sui mercati del carbonio, in particolare l’articolo sugli gli approcci cooperativi (Articolo 6.2) e il meccanismo centralizzato di mitigazione e sviluppo sostenibile (Articolo 6.4). Sebbene i mercati del carbonio contribuiranno solo minimamente agli obiettivi finanziari per contrastare il cambiamento climatico, l’approvazione è stata salutata con favore dagli addetti ai lavori, nonostante le critiche della società civile del Global South.

L’articolo 6,4 istituisce il Meccanismo di Credito sotto l’Accordo di Parigi (PACM), il primo mercato globale supervisionato dall’Onu, che sarà supportato dallo Strumento di Sviluppo Sostenibile (una valutazione ex ante di ogni nuovo progetto sulla base degli SDGs), per venire incontro alle richieste di popolazioni indigene e Ong. Dentro questo mercato confluiranno i Clean Develpment Mechanism (CDM), un vecchio strumento di carbon market del Protocollo di Kyoto, a condizione che rispettino i nuovi requisiti. Secondo Edoardo Croci, Università Bocconi, “è una decisione importante un segnale di prezzo globale e svilupperà maggiori collaborazioni tra stati, oltre che meglio indirizzare il mercato volontario”.

L’articolo 6.2 istituisce legalmente gli ITMO, ovvero progetti di riduzione o rimozione delle emissioni di gas a effetto serra, trasferite tra Paesi come meccanismo di cooperazione. Se un governo africano realizza un impianto eolico che genera una riduzione annuale di 100.000 tonnellate di CO₂ equivalente, può vendere i crediti di carbonio ad un’altra nazione, che conteggerà così la riduzione emissioni nel suo budget della CO2. Tutti gli ITMO saranno elencati in un unico registro.




RIFORMARE LA COP

Durante la COP29, la Presidenza ha presentato l'Iniziativa "Trio di Rio", volta a promuovere un'azione coordinata tra le tre principali Convenzioni delle Nazioni Unite adottate a Rio de Janeiro: cambiamenti climatici, biodiversità e lotta alla desertificazione. Tuttavia, manca ancora un percorso negoziale dedicato che unisca clima, biodiversità e desertificazione, simile a quelli già avviati in passato sull'agricoltura. Nei giorni del negoziato di Baku è circolata la proposta del Club di Roma di riformare l’architettura stessa dei negoziati. La proposta punta a trasformare le COP in incontri mirati al monitoraggio e all’attuazione delle politiche climatiche e biodiversità, con una drastica riduzione delle dimensioni e una maggiore enfasi sul raggiungimento di risultati concreti. Si suggerisce di eliminare la separazione tra aree negoziali e stakeholder, creando invece sessioni di lavoro condivise tra tutti i partecipanti. Ogni tre anni potrebbe svolgersi un summit globale per mostrare soluzioni e progressi, mentre negli anni intermedi i negoziatori si riunirebbero a Bonn per finalizzare documenti già negoziati, evitando lunghi dibattiti.

La riforma prevede anche l’introduzione di un sistema globale di monitoraggio in tempo reale per calcolare gli impatti delle politiche sul riscaldamento globale e aggiornare quotidianamente il mondo sull’allontanamento dall’obiettivo di 1,5°C. Liste pubbliche dei Paesi in linea con l’obiettivo climatico evidenzierebbero i progressi, incentivando azioni più ambiziose. Le priorità includono la riduzione graduale dei combustibili fossili, la trasformazione dei sistemi alimentari, la tutela e il ripristino degli ecosistemi naturali e l’espansione delle tecnologie per le emissioni negative.

Ma la sfida non è solo questa: il clima si risolve con un importante lavoro sul multilateralismo e sulla pace globale. Serve rafforzare l’idea del ruolo internazionale delle Nazioni Unite e della partecipazione condivisa dello sviluppo sostenibile, altrimenti sempre di più si rischieranno negoziati sempre più divisivi e in ultima istanza il fallimento dello sforza per fermare la crisi climatica e quella della biodiversità.

Un articolo di Emanuele Bompan, da Baku